Ricordi del partigiano soresinese Aldo Del Bue

A suo tempo la figlia di Piero Borelli, Giulia, ci invitò a riordinare le carte del padre riguardanti la sua partecipazione alla Resistenza, l’attività di Sindaco di Soresina ed altro. Esse sono state poi depositate nel nostro Archivio di Stato. In questi giorni la stessa Giulia ci ha consegnato un bel documento, rinvenuto successivamente: è una memoria del compagno Aldo Del Bue che egli scrisse nel 1986 su alcuni momenti e vicende della sua vita. “Memorie di un ragazzino diventato adulto” è il titolo che ha dato a questi appunti.
Aldo Del Bue è nato a Soresina nel 1915, operaio, fu attivo partigiano, come molti sanno e come risulta nell’archivio dell’ANPI di Cremona. È  scomparso nel 1993.
Dalle sue note trascriviamo la parte riguardante l’antifascismo e la Resistenza.
Giuseppe Azzoni – ANPI, settembre 2019

(…) 1938: a 23 anni avevo una moglie e una bambina e cominciavo il lavoro in Latteria… In via Brescia c’erano parecchi ragazzi della mia età e vi erano due anziani antifascisti, Frosi e Ghidoni, che avevano passato qualche anno in prigione a Ventotene come politici. Sono stati proprio questi due anziani che, dopo vari contatti, convinsero un gruppetto di noi ad accettare un approfondimento della situazione politica e la nascita del fascismo. Andavamo in campagna e loro come maestri mi spiegavano il modo di comportarsi al fascismo. Al regime occorrevano molti volontari ed era un continuo il richiamo al popolo di rafforzare le loro file. Sono stati molti gli italiani che hanno aderito con molti stratagemmi e poi portati a fare la guerra in Spagna. Noi rimasti a casa abbiamo sempre rifiutato qualsiasi ricatto anche quando ci hanno minacciato, anzi un gruppo di noi si era proposto di andare a combattere contro i falangisti ma l’impresa fallì sulle montagne per una bufera di neve (nell’attraversamento delle Alpi ndr) che costrinse a desistere.

Nel 1939 fui richiamato a militare e andai a Cuneo; il mio Reggimento era destinato alla Russia quando una legge emanava che tutti coloro che avevano qualche fratello deceduto sotto le armi sarebbero stati esonerati e allora (…) me ne tornai a casa (in precedenza Aldo aveva scritto: “mio fratello era deceduto in un incidente aviatorio in Africa località Aigutta Tripoli”).

Nel 1943, in febbraio, fui richiamato ancora, dislocato a Monza in una caserma di pompieri, eravamo una cinquantina. L’otto settembre mi trovai in caserma, notai che gli ufficiali erano spariti ed il rancio non era stato distribuito né la mattina né al pranzo. Non c’era più nessuno che comandava e allora presi il fucile e percorsi il viale che portava a una casa con negozio di latte. Deposi il fucile, mi vestii in borghese che avevo portato con me e me ne andai per Monza. Il proprietario del negozio si chiamava Mosconi Guido ed era un soresinese. Nella tasca della giacca portavo sempre una piccola ronca che mi è servita in una piazza di Monza quando un gruppo di borghesi fermarono un ufficiale, lo picchiarono e stavano per caricarlo su un furgone quando mi avvicinai e presi il cinturone e la spallina e con un colpo di ronca gli ho tagliato la cinghia dalla quale pendeva un grosso portacarte e la fondina della pistola.

In quei giorni vi era una confusione inaudita, tutti correvano, borghesi, fascisti, i tedeschi erano occupati a bloccare tutte le caserme. Anche la mia fu bloccata e i militari presi e portati in Germania. Queste notizie mi furono confermate dallo stesso Mosconi. Verso sera mi incamminai verso casa, altri come me li trovai lungo il cammino. Quando chiedevi da mangiare tutti si prodigavano per aiutarci ed era una solidarietà inaudita. Era l’inizio della diserzione dall’esercito e degli sbandati di pianura e di montagna.

Anch’io assieme a Bera e Bossi andai in montagna e precisamente a Saviore, il nostro scopo era organizzare gli sbandati e farne una brigata, ma uno di noi non se la sentiva, notando che i tedeschi si erano già instaurati sulle alture e gli sbandati che non erano ancora inquadrati in brigate si trovavano sul passo Garibaldi. La signorina anziana che mi ospitava mi consigliò di tornare in pianura, in seguito questo paese fu dato alle fiamme e il prete fucilato.

Ritornai a Soresina, Bera andò a Cremona ed io ritornai al lavoro. La mia attività di antifascista non era finita, anzi … tutte le ore diurne e notturne erano dedicate alla raccolta di notizie e materiale che a mia volta trasmettevo ai gruppi sbandati. I gruppi più importanti dei quali avevo molti contatti erano quelli di Castelleone con la punta estrema la famiglia Bellotti e molti altri compagni di cui non si conosceva il nome per ragioni di sicurezza. Collaborarono così pure quelli di Azzanello, Mirabello. Casalmorano, Trigolo. Mi sono spinto fino all’altra parte dell’Adda in provincia di Lodi in una località che sembrava immersa nella foresta. I compagni mi chiesero l’appoggio dei partigiani soresinesi ed altre richieste che nemmeno noi avevamo. Si trattava di organizzare una azione per la cattura e l’eliminazione di un certo Boffelli di Soresina che operava nel lodigiano.

Il gruppo di Castelleone era il più rifornito di generi alimentari ed altro: gli alimenti in genere li fornivano le sorelle Rossi tramite Scola, un falegname che abitava in via Roncaglia. Le armi che man mano venivano recuperate venivano trasportate o in bicicletta da chi scrive o da un menalatte che con il suo carico di bidoni transitava indisturbato.

A Casalmorano vi era un gruppetto capeggiato da un certo Begnamini il quale fu fucilato il 25 aprile per aver fatto il doppio gioco facendo arrestare parecchi soresinesi. A Mirabello facevano un lavoro di disturbo tagliando i fili telefonici e altre azioni. Anch’essi furono denunciati da un loro compagno che aveva una bottega di alimentari, forse stufo di soccorrere con alimenti lo stesso gruppo. Questo gruppo però fu messo in allarme quando in una riunione tenuta in campagna si presentò vestito come un gagà: lo notai subito che non c’era da fidarsi.

A Trigolo vi era un gruppo di slavi, avevano molta fifa, non si fidavano di nessuno e non a torto, forse per la lingua e anche perché non vi era nessuno del luogo che li guidava. A Soresina, dopo lo scontro con i fascisti cremonesi, a cui partecipò Armelloni, un ginnasta olimpico che si era trasferito a Milano, Nicolini Natale e Bonaldi detto Pinotu, i fascisti furono disarmati e messi in fuga. Tra Casalmorano e Mirabello vi fu una esecuzione per opera dei gap, Gruppo d’azione patriottica di Soresina. Ne fece le spese il tenente Borelli, la scorta se la cavò scappando in mezzo ai campi.

Altre azioni furono effettuate impossessandosi di cose come macchine da scrivere di cui Cremona aveva estremamente bisogno; anche dell’esplosivo che un certo Scaravaggi si procurava: faceva raccolta di pelli di coniglio e lo nascondeva nel pelo; nascondeva tra le pelli anche della stampa. Certa merce veniva inviata a Cremona tramite un ragazzo di nome Bertelli Sergio il quale dopo aver disertato dalle file fasciste si era unito a un gruppetto di sbandati della Madonnina, rione di Soresina. Questo ragazzo molto vivace un giorno fu preso e mentre veniva trasportato in bicicletta in caserma, dopo un diverbio con il suo conducente veniva accoltellato al ventre ma ebbe ancora la forza di estrarre la pistola e di uccidere il suo rivale. Fu poi ucciso da un alpino mentre tentava di fuggire.

I GAP erano formati dai fratelli Stanga Mario e Arnaldo e da chi scrive, di rincalzo vi era Frosi Gino detto Gigen e Bellotti figlio. Facevano parte della brigata Follo del raggruppamento Ferruccio Ghinaglia (la “Francesco Follo” era una delle 4 brigate garibaldine cremonesi, copriva il territorio a nordovest di Cremona e il cremasco ndr). Con questo ragazzo (Bellotti) di Castelleone ci siamo incontrati alla cascina la Rocca; lui era armato e decidemmo in poche parole non di andare a prelevare ma di eliminare sul posto Mazzolari “el bisul”. Con il pretesto del grano andammo verso casa che si trova davanti a Gentilio l’oste. Eravamo decisi e suonammo il campanello: dall’altra parte sentivamo chiacchierare e noi dicevamo “siamo a posto, è in casa”. Si aprì d’un colpo la porta e si affacciarono due ufficiali tedeschi i quali con le pistole puntate ci fecero cenno di allontanarci. I loro modi non erano da commentare e siamo usciti; l’oste che ci servì un bicchiere di vino ci disse che erano appena entrati.

Organizzai l’assalto ad un carico di alimentari che doveva uscire dalla Latteria; questo carico doveva andare verso Casalmorano e di notte avvisai Labadini Alfredo detto “el pet gaghin” che era con altri due in campagna. Lui accettò che avrebbe fermato il carico. Al mattino si caricava il camion, era molto grosso e ci voleva tempo, seppi dal caporeparto che sarebbe partito per le 14. Verso le 10.30 finsi di star male e corsi a comunicare al gruppetto che il carico sarebbe passato verso le 14 e di prepararsi sul ciglio della strada. Tornato in Latteria verso l’una e mezza incarico Bellandi lo zoppo di andare subito ad avvisare il gruppetto che il camion partiva puntuale ma era scortato dai fascisti armati (così l’azione sfumò). Un giorno tornando dal lavoro mi fermò il fascista Bovane detto “el barbisèt”: (per un futile motivo) mi ha assestato due pugni sulla fronte con il “guanto di ferro”, ero una maschera di sangue. Andai a casa, presi il mitra, ero deciso a tutto, mio cognato mi implorò di desistere, era in pericolo la mia famiglia. Andò lui in Comune a reclamare dicendo che se volevano la calma in paese dovevano modificare i loro metodi. Il fascista Achilli, allora podestà, si chiuse nelle spalle e disse “Comandiamo noi, vedremo”. Io dovetti scappare, mi rifugiai da mia sorella che abitava in una casa di Rinaldi Noè. Ero al sicuro perché il proprietario della casa era un fascista.

Poi fui invitato a casa di Grassi Ettore dove incontrai un certo Sandro, che non conoscevo e che si qualificava come comandante della zona (in effetti “Sandro” era il nome di battaglia di Rinaldo Bottoni, comandante della brigata “Follo” ndr). Egli mi chiese se potevo guidare un gruppo di partigiani appena costituito nella zona di Azzanello. Gli chiesi se nel gruppo si trovava Giorgio il russo (Giorgio Radcenko era a capo della “squadra volante” della “Follo” ndr) che avevo conosciuto e trasportato all’ospedale per una ferita al piede. La risposta fu evasiva ed io non accettai.

Eravamo alla fine del 1944 e avevo anche un maschietto che non avevo ancora visto…

(…)

La storia potrebbe proseguire oltre… 1946, 1947, 1948 con gli scioperi dei contadini, della latteria, dei martiri di Reggio Emilia, dell’attentato a Togliatti. Il governo Scelba mi diede la caccia per mesi, fui preso e condotto a Cremona, dopo un lungo interrogatorio fui rilasciato. (…) Denunciato parecchie volte… ora questo ragazzino diventato adulto a settantun anni continua nei vari organismi democratici la lotta per un avvenire migliore.

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