Dall’uccisione di Sadi Carnot (1894) alla guerra partigiana. L’anonimo ricordo di Jeronimo Sante Caserio
Una nota di Ennio Serventi
Se c’è un tipo di arma che i partigiani non hanno mai vantato di possedere o di avere usato è quella che viene identificata come da “taglio”o da “punta”. Sciabole e baionette, mai amate, erano dell’esercito ed i pugnali della decima MAS. L’arma partigiana per eccellenza, la più ambita, a volte contesa o tragicamente ammirata era il “mitra”, fosse Sten, Skoda o Saint Etienne.
“Il parabellum del legionario era al suo posto sulla tavola rotonda, ancora rivolto ai tre, innocente e tigrino.[…] René non aveva resistito alla tentazione d’ammirarselo da vicino e poi di sfiorarlo con le sue mani proletarie, la raffica era sfuggita come divina” (1).
In una foto partigiana uno specialista del ramo ha potuto riconoscere, imbracciato da un partigiano in bella mostra, addirittura un TZ45, mitra progettato all’Armaguerra di Cremona. IL TZ45 venne costruito, in circa diecimila esemplari, per conto della Repubblica di Salò, nella fabbrica dei fratelli Giandoso a Brescia.
Per il “gappista”, nell’azione ravvicinata, l’arma era il revolver, anche questo provvisto della sua automaticità di sparo.
Non è infrequente che i canti partigiani ripropongano la narrazione di fatti remoti, di forte impatto popolare, ancora emotivamente presenti nella memoria diffusa, migrati fra le generazioni che si sono succedute. La diffusa indipendente trasposizione, in chiave partigiana, dei racconti moltiplica i testi dei canti facendo sì che se ne trovino molti in circolazione e l’ individuazione di una primogenitura risulta difficile. Non dissimili gli uni dagli altri ma, ovviamente, non uguali, i componimenti riproducono, in modo diverso, gli aspetti della narrazione che più hanno coinvolto o stimolato la partecipata sensibilità degli autori. Il diffuso sentito popolare del fatto moltiplica la autonoma trasposizione, nel nostro caso, in versione partigiana, delle storie. Spesso l’impianto generale è comune e rimane inalterato, ma gli interventi, in un senso o nell’altro, ne possono modificare l’orientamento originario. A volte i versi di queste riflettono gli orientamenti politici delle formazioni dalle quali scaturiscono.
C’é un bel canto che ancora si canta, di autore anonimo come lo sono molte canzoni partigiane. Il racconto si svolge davanti a un tribunale, sicuramente nemico e non “terzo”, dove il partigiano accusato, con orgogliosa ammissione, riconosce come suo il pugnale che gli viene mostrato, dichiarandosi autore dell’atto a lui imputato: “sì sì che lo conosco / … / nel cuore del fascista / lo piantai a fondo” (2). Sorprende l’uso di quell’arma non amata e l’esaltazione che si fa nel canto dove ne viene fornita anche una parziale descrizione: “ha il manico rotondo”; quasi una glorificazione della manualità nell’uso di quello strumento arcano, contrapposta alla moderna automaticità del parabellum. Continua »