di Ennio Serventi
La notizia ci arrivò con il telegiornale della notte. Quel che fin dal glorioso 1959 si temeva si stava avverando. L’imperialismo americano, insofferente per quella indipendente e libera presenza nel “giardino di casa”, arruolato un esercito attaccava Cuba. Fidel Castro, con un discorso rimasto nella storia, chiamò il popolo della rivoluzione alla difesa.
Noi, da questa parte dell’Atlantico, c’incontrammo al mattino. Discutemmo commentando le notizie provenienti da diverse fonti internazionali, azzardammo ipotesi. Io, nel gruppetto, ero forse il più pessimista:
“Sono forti, vinceranno loro come è sempre stato, rimetteranno a Cuba un nuovo Batista con rum a gogò”, dicevo.
“No!”, ribatteva Mango, “la rivoluzione vincerà ancora, li ributteranno a mare”!
“Dobbiamo aiutarli, fare qualche cosa!” ripeteva Franz.Su questo proposito fummo tutti d’accordo, ma quando passammo a vedere quel che potevamo fare emerse tutta la nostra impotenza. Mica potevamo arruolare volontari per costituire una brigada come era stato per la Spagna del 1936, né spedire loro una cassa di cartucce, bombe a mano o altro genere di cose che potessero essere utili. Fra noi e loro c’erano monti, mari, le polizie di tanti paesi e l’ormai nostro disuso a fare cose di questo genere.
Noi tre abitavamo nella contrada ed il grande portone sempre chiuso della ex “cavallerizza”, dirimpettaio di quello della caserma munito di vigilanza armata, era lì a due passi. Guardinghi, uscimmo di casa che era notte. Nel secchio un denso latte di calce spenta ed il grosso pennello da muratore. La scritta doveva essere breve e l’azione rapida, silenziosa per non allarmare il corpo di guardia della caserma. Scrivemmo e furtivi andammo via per altri muri di case in altre strade.
Alla mattina la nostra scritta, breve ma grande, occupava tutta la larghezza del portone fra i due stipiti. Non doveva essere stata gradita dal comando della caserma. Per alcuni dei giorni successivi con la baionetta un militare cercò di cancellarla. Quell’anonimo soldatino raspò ed incise in profondità le assi di vecchia quercia. Bella, precisa nei contorni, indelebile, ne risultò una incisione che parve fatta apposta e che nel tempo mantenne largamente leggibile il nostro “VIVA CUBA”.
In quell’aprile del 1961 la rivoluzione cubana vinse ancora e gli aggressori rispediti via mare alle loro basi di partenza. “Mango”, quella volta aveva visto giusto!
Noi il 26 di quell’aprile festeggiavamo il sedicesimo anniversario della conclusione della nostra guerra di liberazione. L’appuntamento per il corteo era sul piazzale della stazione. Nella notte ci fu chi preparò uno striscione inneggiante alla vittoria della libertà a Cuba. Non tutti, ed in particolare i rappresentanti “istituzionali”, non furono d’accordo e misero in atto pressioni perché lo striscione fosse tolto. Chi l’aveva scritto tenne duro, il corteo si divise in tre tronconi, ma lo striscione inneggiante alla vittoria della libertà a Cuba venne da noi portato fino in piazza del Comune.
Commenti chiusi.