«Gli internati militari in Germania 1943-45»  

Cremona, Sala Alabardieri, 17 febbraio 2006

Testimonianza di un ex internato militare in Germania 1943-45

Sono Giovanni Azzoni, chiamato da tutti Nino, classe 1921.

Sono stato nel dopoguerra, per una decina di anni, segretario dell'Associazione Combattenti e Reduci di Bonemerse.

Innanzitutto ringrazio gli organizzatori del convegno che mi hanno dato l'opportunità di partecipare a questa manifestazione, per portare un mio modesto contributo a questa "Resistenza oscura" dei circa seicentomila militari italiani deportati in Germania nei lager nazisti e destinati in gran parte a lavori pesanti, che io definirei prigionieri di guerra.

Non vollero qualificarci tali sottraendoci al controllo e all'assistenza previsti dalla convenzione di Ginevra del 1929.

Hitler si era vendicato perché gli italiani erano venuti meno all'alleanza con la Gemania.

Un particolare ringraziamento lo devo all'autore del libro citato che attraverso la sua opera contribuisce a ridestare la memoria di questo avvenimento storico, affinchè lo stesso non si dissolva nell'oblio del tempo.

Il trattamento sul suolo tedesco nei lager nazisti era disumano sotto ogni punto di vista. I soldati della Wehrmacht ci consideravano traditori e come tali venivamo trattati. Sottoposti ai lavori più umili e pesanti, impiegati nella manovalanza delle linee ferroviarie, in scavi per fortificazioni militari, nella rimozione delle macerie, per la costruzione degli unterseeboot, i famosi sottomarini u-boot, in vari stabilimenti, facchinaggio di ogni genere ecc. per oltre 10 ore di giorno e qualche volta di notte, sotto l'incubo dei bombardamenti aerei americani o britannici provocanti migliaia e migliaia di morti ed immense devastazioni su territorio. Ne ricordo uno con oltre 10.000 morti.

Provenivo da Atene - 8° Reggimento Artiglieria Divisione Brennero. Le sorti del nostro esercito andavano prendendo un brutta piega sul fronte africano con un continuo estenuante ripiegamento, lo si definiva una difensiva elastica.

Alla Divisione e ovviamente al nostro Reggimento fu ordinato di partire per l'Africa a sostituire mezzi e uomini per rafforzare le operazioni belliche.

Attraversammo la Grecia dove subimmo delle perdite dovute ad attacchi da parte dei partigiani locali. Ai primi di settembre 1943 arrivammo al porto di Valona (Albania) o meglio nelle immediate vicinanze, dove sostammo per alcuni giorni, e qui l'otto settembre incominciò il calvario.

I comandanti dei reparti non sapendo come comportarsi di fronte all'ex alleato e per il non eccessivo senso del dovere, non si erano interessati con la dovuta attenzione. Fu così che le truppe furono facile preda dei tedeschi.

Le armi leggere in dotazione vennero accatastate disordinatamente ed i cannoni, privati degli strumenti tecnici di puntamento, furono abbandonati.

Si salpò da Valona, diretti in Germania, su tre navi mercantili triestine già cariche di  materiale vario. Tre cacciatorpediniere scortavano il convoglio, una di queste abbandonò il convoglio involandosi quasi subito per Bari,  scelse di passare con l'esercito regolare di Badoglio, noi militari eravamo sistemati quasi tutti in coperta senza riparo dalle intemperie. Le tappe: Venezia, Canal Grande, ove i gondolieri ci invitavano a tuffarci; Trieste, ove il bastimento Rex, fiore all'occhiello della nostra flotta turistica, giaceva sul fianco ormai inutilizzabile, indi Tarvisio per via ferroviaria, dal passo di Camporosso, su carri bestiame sigillati e con guardia armata per le continue fughe di prigionieri dai finestrini. Dall'Austria a Meppen - Olanda - in un campo di concentramento e smistamento, sistemati in baracche di legno fornite di letti a castello su tre piani. Filo spinato tutto intorno e varie garitte in alto sui lati con militare dotato di armi leggere, mitragliatrici, bombe a mano ecc. Qui ci hanno riuniti in uno spiazzo e, tramite un interprete, ci è stato detto che chi di noi avesse aderito all'esercito di Salò sarebbe stato subito rimpatriato. Se ricordo bene nessuno aderì.

Pochi giorni di sosta ed a piedi, carichi di vestiario di scorta e quant'altro, posti in ampio zaino si puntò su Dormaghen  - Westfalia Renania con impiego in uno zuccherificio.

Viaggio duro, massacrante per l'incessante pungolo del militare tedesco a cavallo. Alcuni commilitoni, meno dotati fisicamente alleggerivano il carico buttando qualche indumento. Fui subito occupato come caricatore su appositi vagoncini di carbone necessario per il funzionamento delle caldaie.

Lavoro duro da effettuarsi di giorno e di notte, sotto la neve o la pioggia. Il vestiario veniva in certi frangenti asciugato dalle grandi tubature. Trattamento pessimo nel lager, disciplina ferrea con accompagnamento di soldati tedeschi allo zuccherificio a passo ritmato.

Dopo circa 4-5 mesi fui trasferito con altri a Munchen Gladbach, sempre in Renania nella fabbrica degli unterseeboot con compito non proprio gradevole in quanto dovevo collaborare all'esterno per il caricamento di spesse e pesanti corazze di ferro, sprovvisto di guanti protettivi ed in un clima veramente gelido. Orecchie turate per l'assordante rumore provocato dall'assemblaggio del natante. Sosta di qualche mese e trasferimento, con alcune centinaia di uomini, a Wuppertal, città della Renania con circa 400.000 abitanti, centro costituito dalla fusione di 2 città: Barmen e Elbelfeld. Qui scaricatore ferroviario, facchino con prevalenza di movimentazione di carbone. Ero il capo del Komando Funf- 5 - Trattamento pessimo nel lager. Disciplina ferrea e come al solito, alimentazione scarsa sia per il rapporto calorico sia che per lo sgradevole gusto al palato. Le intemperie si facevano sentire per la precarietà dell'equipaggiamento e per la limitata efficienza fisica. Le pale per lo scarico erano molto grandi e spaccavano le reni a chi le doveva per forza usare. Si dovevano scaricare 8 o 9 vagoni al giorno.

Qui avvenne un fatto estremamente doloroso. Quattro miei compagni di lavoro hanno avuto la pessima idea di spiombare un vagone di derrate alimentari per cercare qualcosa da mangiare.

La fame, quella vera è sempre stata cattiva consigliera. Vani erano stati purtroppo i miei consigli, i miei ordini che volevano impedire loro di commettere una azione non proprio positiva. Scoperti dagli Agenti di sorveglianza e portati tutti, me compreso, immediatamente al Comando militare di zona e subito processati.

Processo ovviamente sommario senza un difensore d'ufficio. Il traduttore, un militare tedesco che conosceva benino la nostra lingua usava il calcio del fucile quando le nostre risposte non erano ritenute giustificate. Diversi colpi assestati con una certa virulenza li assorbii anche io senza fiatare.

In meno che si dica fu pronunciata la sentenza definitiva. Alle tre del mattino un plotoncino di militari tedeschi irruppe nel nostro dormitorio per prelevare i quattro commilitoni che chiamati con il loro numero di matricola e scortati dalla ciurma si avviarono lentamente sulla strada adiacente. Il loro destino era irrimediabilmente segnato. Si seppe poi della loro fucilazione (per un poco di zucchero ed un po’ di farina). Io fui assolto dal fatto contestato, i miei compagni sostenendo la mia estraneità mi avevano difeso. A loro debbo la vita. Mi fu comminata però una piccolissima pena: pulizia per un mese della baracca dopo il ritorno dal lavoro.

Nessun cambio di indumenti ormai consunti dal facchinaggio del carbone. Rimasi stracciato come un ladro, un prigioniero francese per fortuna mi regalò un paio di scarpe.

Molta riconoscenza la devo al mio carissimo amico Ginetto Gazza, di Soresina, che purtroppo ci ha lasciato da qualche anno. Con lui avevo trascorso gran parte della vita militare fianco a fianco, lui furiere Capo ed io il suo più diretto collaboratore. Essendo egli occupato in una grande sussistenza militare, mi riforniva nel limite del possibile di piccole porzioni di carne, allontanandomi così dalla tentazione del furto. Ricambiai assistendolo con molto impegno a superare la malaria colà contratta.

Alla fine del 1944 il lavoro di tale facchinaggio era cessato. Le stazioni ferroviarie erano inefficienti, semidistrutte. Il nuovo impiego era un facchinaggio particolare. Con un camioncino "Opel-blitz" provvedevo assieme all'autista tedesco a rifornire il quartiere di carbone e patate, sacchi di 50 Kg. ciascuno da sistemare nelle cantine non sempre di facile accesso di scarico.

Ai primi di marzo del 1945 si stava delineando la sconfitta dell'esercito tedesco.

Le truppe americane si assestarono al di là delle rive del Reno bombardando con l'artiglieria e l'aviazione le molte città che si trovavano nel raggio di 30 Km., compreso Wuppertal.

Un concentrato abitativo ed industriale immenso, già decimato, e completamente sconvolto. Fuoco puntato principalmente sulle stazioni ferroviarie e sugli obiettivi militari. La reazione della Wehrmacht quasi nulla. I nostri rifugi precari, erano fossi da noi scavati o cantine.

Verso il 20 aprile 1945 le truppe americane, quasi tutte di colore, entrarono in Wuppertal accolte dall'entusiasmo e dalla gioia dei prigionieri italiani, francesi, polacchi, russi, militari e civili, molto meno dai tedeschi.

All'inizio dell'autunno 1945 avvenne il rimpatrio. Percorso molto allungato in quanto tutti ponti sul Reno erano stati colpiti e quasi tutta la rete ferroviaria inutilizzabile. Rimpatrio tanto sognato ed atteso. Era avvenuta la vera ricostituzione della famiglia. La nostra gioia era indescrivibile.

Per circa 5 anni non avevo più visto il padre; la mamma, essendo io figlio unico, era rimasta sola salvo qualche sporadica licenza del marito.

Avendo le due grandi fornaci di laterizi operanti a Cremona  chiuso i battenti  mio padre, che vi lavorava, non trovando lavoro era emigrato in Germania ad Amburgo, grossa città di 1.800.000 abitanti, specificatamente nel sobborgo di Altona,  sede del grande porto sull'Elba. Occupato in lavori edili vi rimase per tre lunghi anni. Amburgo, dopo Dresda è stata la città che ha avuto le maggiori devastazioni sul territorio e  perdita di vite umane.

Basta leggere il libro: Tempesta di fuoco sopra Amburgo.

Concludo ricordando che dovere della scuola è di far conoscere questo oscuro accadimento storico, affinché lo stesso sia di monito alle nuove generazioni onde scongiurare per sempre il flagello della svastica.

A questi prigionieri di guerra, in parte già scomparsi, ai superstiti ormai vecchi, agli amici che se ne stanno andando è doveroso rendere quell'omaggio e quell'ossequio tanto meritato.

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