«Gli internati militari in Germania 1943 - 45»  

Cremona, Sala Alabardieri, 17 febbraio 2006

Intervento del Sindaco Gian Carlo Corada

Mi voglio congratulare con L’ANPI di Cremona per aver deciso di organizzare questo incontro dedicato al tema degli internati militari italiani in Germania dal 1943 al 1945. è una tematica per troppo tempo rimasta defilata e che ora, grazie ad iniziative come questa, riesce ad ottenere una giusta visibilità e lettura ed a ritagliarsi un adeguato spazio nella pur ricca e gloriosa storia dell’antifascismo e della Resistenza italiana.

E voglio congratularmi anche con il Comune di Madignano che ha predisposto la mostra  «Non più reticolati nel mondo» in positiva collaborazione con l’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci. Della mostra, che rimarrà esposta in Sala Alabardieri fino a domenica 26 febbraio, parlerà più nel dettaglio Catia Ranieri, Assessore alla cultura del Comune di Madignano, che saluto e ringrazio per essere qui tra noi. Da parte mia, invece, affronterò un po’ più da vicino il bel libro di Guido Sanfilippo La Resistenza oscura. Storia dei militari italiani nei Lager nazisti. Si tratta di un’opera meritevole, meritevole due volte.

La prima perché contribuisce al più complessivo impegno – messo in campo, purtroppo, da non molti anni – volto a recuperare ruolo e dignità ad una pagina della Resistenza e dell’antifascismo italiano ed europeo ingiustamente sottovalutata, per lunghi anni. Spesso addirittura stupidamente rimossa. Mentre la resistenza nei lager è costata, come risulta dagli stessi registri dei decessi compilati dai tedeschi in ogni campo di prigionia, il sacrificio di 78.216 caduti.

La seconda perché, su questo versante, interviene a recuperare una pagina importante di “storia minore” – in una parte geograficamente e storicamente significativa della provincia di Cremona come il Casalasco – fatta di racconti, ricordi, cenni biografici, aneddoti di vita vissuta.

Se c’è poi un ulteriore merito di questo libro, è che – anche attraverso la lettura – viene a cadere una sorta di falso mito che, inspiegabilmente, è riuscito ad autoalimentarsi per tanti anni. Mi riferisco al millantato rapporto tra la parola Patria e la destra estrema, quella che guarda con nostalgia e rimpianto non solo al ventennio nero, ma soprattutto all’esperienza tragica della RSI.

È un libro – quello di Sanfilippo – che può ben essere paragonato ad un’opera di un altro importante personaggio che scrisse della sua esperienza diretta vissuta come IMI. Mi riferisco a Il quaderno nero: Settembre 1943 – Aprile 1945 di Giovanni Giovannini, 84 ani, toscano, anzi casentinese (è nato a Bibbiena, in provincia di Arezzo). Giovannini, dopo una brillante carriera giornalistica che lo ha portato ai vertici del quotidiano “La Stampa”, è stato a lungo presidente della federazione internazionale editori giornali e dell’ANSA.

L’8 settembre 1943 trova il caporalmaggiore Giovanni Giovannini a Grasse, la famosa città dei profumi nel sud della Francia. Nel suo stile asciutto, essenziale, spigoloso che per certi versi ricorda quello di un altro toscano nato a pochi passo dal casentino, il Dino Campana dei Canti orfici, Giovannini racconta lo sfascio dell’esercito, la rabbia e lo sbandamento dei militari, senza più ufficiali superiori, senza più ordini, ad arrovellarsi nell’interpretazione del fumoso comunicato di Badoglio (l’invito a reagire “ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”), senza notizie sulla reale situazione italiana.

In quei giorni si consumò, in pratica, la seconda Caporetto italiana. E come la prima Caporetto, anche la seconda unì uomini di diversa origine regionale, di differenti categorie sociali e culturali, rinverdì il sentimento di Nazione.

L’effetto, sulla grande maggioranza dei militari italiani, fu il rifiuto di qualsiasi forma di collaborazione con l’ex alleato. Si arriva così al disarmo della truppa da parte dei tedeschi, l’incolonnamento dei soldati, la deportazione nelle lunghe tradotte fatte di carri bestiame.

E poi i lager di Limburg, di Mannheim, di Strasburgo, di Colmar, di Offenburg, di Volkersthausein, a due passo dal lago di Costanza. Un viaggio, un calvario e come compagni d’avventura la fame, la fame nera mai saziata dalla scodella di “sbobba” e da una fettina di pane nero; il vestiario a brandelli, la posta che non arriva e non parte, i pacchi da casa che si vedono molto raramente, la mancata assistenza da parte della Croce Rossa che i tedeschi sempre impedirono, le lusinghe e le minacce perché gli IMI aderissero alla repubblichina di Mussolini, il lavoro obbligatorio svolto in condizioni disumane, il tentativo di fuga, la cattura, la punizione.

E poi l’altalena delle notizie fornite, interpretate, ingigantite, distorte da chi aveva ascoltato una radio o letto un foglio di giornale trovato fra la carta straccia: gli alleati sono sbarcati, avanzano, sono fermi sull’Appennino, i russi avanzano da Est, gli alleati incontrano resistenza da Ovest, i tedeschi stanno costruendo le armi segrete, le hanno già pronte. Informazioni destinate a tirar su il morale degli internati e a precipitarlo, subito dopo, nella più nera delle depressioni! E poi i rapporti con i carcerieri, con i capò, con la popolazione civile, con le SS, con i prigionieri di altre nazionalità, con i liberatori francesi che avevano l’ordine di lasciar andare tutti tranne gli italiani. L’ufficiale dei carristi francesi comunicò a Giovannini che avrebbe ignorato quest’ordine perché il suo reparto era chiamato ad altri compiti operativi di guerra. Lui partiva, ma lo informò che a breve sarebbero arrivati i reparti di fanteria che avrebbero eseguito alla lettera tutte le disposizioni ricevute. E allora via di corsa verso la frontiera Svizzera dove gli IMI riuscirono a passare ricorrendo ad uno stratagemma ed impietosendo l’ufficiale di guardia.

Non fu un fenomeno da poco quello degli internati militari italiani. Né sul paino della quantità, né su quello della qualità.

A seguito dell’8 settembre l’esercito italiano viene lasciato allo sbando. Non ci sono indicazioni, mancano gli ordini, soprattutto in relazione alla questione cruciale del momento: quale atteggiamento tenere nei confronti dell’ex alleato tedesco, ora occupante.

Parecchi – ufficiali, sottufficiali, soldati – riescono a fuggire, si nascondono, trovano rifugio presso qualche famiglia coraggiosa, nelle cascine del nord. Tanti ancora si sbandano, fino a trovare la soluzione tra le fila della lotta partigiana.

Ma molti vengono presi dalle forze occupanti. Sono 810 mila i militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra: vengono considerati disertori oppure franchi tiratori e quindi giustiziabili se resistenti (in molti casi vengono trucidati, come a Cefalonia).

In un primo tempo – fino al 20 settembre del ’43 – vengono classificati come prigionieri di guerra, poi come internati militari (IMI), con decisione unilaterale presa dai tedeschi ed accettata supinamente dalla RSI che li considera propri militari in attesa di impiego.

Hitler non li riconosce come prigionieri di guerra e per poterli “schiavizzare” senza controlli, li classifica, appunto, “internati militari”, categoria ignorata dalla Convenzione di Ginevra sui prigionieri, del 1929.

Di questi 810 mila militari italiani, 94.000 optano, alla cattura, per la RSI e le SS italiane, come combattenti (14.000) o ausiliari (80.000).

Dei 716.000 IMI restanti, durante l’internamento, 43.000 scelgono, nei lager, di passare alla RSI come combattenti e 60.000 come ausiliari.

Ne resta la gran parte, oltre 600.000 che, nonostante le sofferenze e il trattamento disumano subito nei lager, rimangono fedeli al giuramento alla patria, scelgono di resistere e dicono “no” alla RSI.

Gli internati – rinchiusi nei lager con scarsa assistenza e senza controlli igienici e sanitari – a differenza dei prigionieri di guerra – sono privi di tutele internazionali e sono obbligati arbitrariamente e unilateralmente al lavoro forzato.

Ebbene, proprio gli Internati Militari Italiani ci raccontano di quanto l’onor di Patria sia stato difeso da chi – internato nel lager tedeschi ed obbligato ai lavori forzati – preferì accettare immani sacrifici e sofferenze, spesso a costo della vita, pur di non tradire il vero amor di Patria, cedendo alle lusinghe ed ai benefici che prometteva l’adesione nelle file della RSI.

Tra gli oltre 650.000 militari italiani catturati dalla Wehrmacht dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e internati nei campi di prigionia del Terzo Reich vi era anche un contingente di cappellani militari. Questi ultimi, come del resto tutti gli IMI, ebbero durante i due anni di reclusione la possibilità di rientrare in patria aderendo alla RSI. Come avvenne per i laici, anche la maggioranza dei sacerdoti in grigioverde la rifiutò.

Testimoni dell’alleanza tra “la croce e la spada”, come indica la croce che portano sulla divisa di ufficiali, i cappellani recano in sé una duplice identità: quella religiosa e quella militare. Il doppio ruolo di “uomini ddi Dio” e di ufficiali è evidenziato dalla doppia serie di attività che sono loro affidate nell’esercito: da una parte l’assistenza pastorale (predicazione e cura d’anime), dall’altra la partecipazione all’organizzazione del consenso dei soldati.

Ritenuti prigionieri “scomodi” molti cappellani ricevettero dai comandi tedeschi al momento della cattura la proposta della libertà. La maggioranza di essi la rifiutò, scegliendo di seguire la sorte dei “propri soldati” nella fase più torbida e amara della guerra. La loro attività venne considerata dai tedeschi destabilizzante, non tanto perché immediatamente eversiva, bensì perché di per sé radicalmente contestatrice dell’ideologia da essi professata.

Le modalità con cui i religiosi si proposero ai compagni di prigionia ricordano da vicino quelle di un parroco nei confronti dei propri parrocchiani. Anche nel motivare il rifiuto di aderire alla RSI per i preti in grigioverde la fedeltà verso i compagni di prigionia contò assai più di quella verso l’istituzione militare, cui invece si mostrò sensibile la massa degli ufficiali, i quali trovarono nel proprio rapporto con essa (il giuramento) motivazioni per il proprio rifiuto di collaborare. Nei cappellani internati l’identità di prete prevalse su quella di ufficiale e la prigionia si configurò come una scelta, la quale vene ad assumere un significato politico, pur fondandosi essenzialmente su ideali umanitari e  religiosi.

È un percorso, quello compiuto da Sanfilippo, che merita di essere seguito con attenzione, per quello che ci racconta, ma anche per come ci viene raccontato. Con approccio mite, obbiettivo, ma non per questo meno solidale, meno “dalla parte” di chi – per dignità e per amor di Patria – ha saputo tanto soffrire.

Attraverso le testimonianze raccolte dall’autore e leggendo qualche corrispondenza tra gli INI e le loro famiglie abbiamo anche l’opportunità di scoprire la vita di tutti  giorni, fatta di sofferenze, amori, ricordi, paure, tenerezze. Riusciamo ad entrare in contatto con un mondo che altrimenti ci sarebbe rimasto ignoto, nascosto.

Il bel libro di Sanfilippo ha un titolo significativo: La Resistenza oscura. Ed abbiamo ben capito il perché di quell’aggettivo – oscura – che ci restituisce non solo una parte “nascosta” che si era quasi “nascosta di per sé”. Ma ci restituisce anche una parte volutamente “nascosta”, almeno fino ad un certo periodo, dalla storiografia ufficiale di quel periodo. Fu un errore, al quale si è riusciti a sopperire, correttamente, dando dignità ed onore ai tanti IMI che fecero davvero parte, in toto, al fenomeno della Resistenza al nazismo ed al fascismo.

Ma, appunto, il titolo del libro di cui oggi parliamo contiene anche il sostantivo “Resistenza”. E mai come oggi questo termine è attuale, e ricopre un’importanza decisiva anche per il nostro presente e per il nostro futuro.

Quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario della Repubblica italiana. Noi non possiamo né vogliamo dimenticarlo. La Repubblica, che oggi consideriamo come un dato assodato, è stata il frutto di una dura battaglia, dall’esito incerto fino alla fine. Costituzione, repubblica, democrazia: per strapparli c’è voluta una guerra, la lotta armata in montagna, il rifiuto di tornare degli IMI.

Oggi il ruolo della Resistenza nella storia nazionale viene messo in discussione, e lo scontro politico è così forte da non consentire posizioni neutrali.

Ciò che si chiama “revisionismo storico” è spesso la critica della ragioni fondamentali della Costituzione e della Resistenza, non mira a stabilire una verità in qualche modo oggettiva, ma ha sovente l’obiettivo strumentale di delineare il passaggio da un regime democratico ad un regime che riduca i diritti dei cittadini.

“La Resistenza oscura” di Guido Sanfilippo si inserisce dunque in un forte dibattito, complesso e meritevole di grande attenzione. E contribuisce a consolidare il definitivo accreditamento dell’esperienza drammatica e dura degli IMI nel fecondo solco della Resistenza italiana.

Grazie, dunque, a Sanfilippo per l’importante ricerca compiuta, per la restituzione alla memoria collettiva di una parte importante della nostra stria, e per l’originale contributo dato, con questo suo libro, ad un recupero e ad un approfondimento di temi che sembrano forse lontani, dietro le nostre spalle. Ma che invece riguardano – tutti interi – il nostro presente ed anche, e forse soprattutto, il nostro futuro.  

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