Nell’estate del 1944 Franco Tentoni, studente del 3° anno di medicina, fu il responsabile dell’assistenza sanitaria ai partigiani ed alla popolazione di Valsaviore. La sua attività, conclusasi forzatamente con l’arresto durante una missione a Bienno il 28 settembre, viene qui riassunta in un memoriale della fine degli anni ’70.
Tentoni conferma, dal suo particolare angolo prospettico, la generale solidarietà della cittadinanza con i partigiani, fattore di tenuta e di sostegno della formazione comandata da Nino Parisi.
La nostra brigata, la 54a Garibaldi, che operava in Valsaviore, aveva due livelli di assistenza medica: uno di base e uno operativo superiore. Quest’ultimo dipendeva dagli alti comandi medici veri e propri visitavano, sia pure ad ampi intervalli di tempo, gli uomini che ne avessero particolare bisogno ed erano in collegamento con medici e farmacisti residenti, talché si riusciva anche a nascondere e portare in luoghi più adatti i feriti gravi (come avvenne per il vice comandante della brigata dopo la mia cattura).
Io invece pensavo alle minuzie quotidiane. Venendo avvertito, quando il caso, da misteriosi messaggeri, che comparivano misteriosi come gli angeli della Bibbia; particolare posto nella mia memoria di quel tempo impegnato e felice occupa la visione delle mie marce solitarie fra i boschi e dirupi.
La sera della battaglia del Cevo, chiamato appunto per curare due feriti, esitai, facendo presente al mio comandante che in fondo ero solo uno studente del terzo anno di medicina; al che egli rispose: “Tu sei studente, io sono operaio; chi deve curare i malati?” Così venne risolto il mio problema (e purtroppo anche quello della brigata).
La mia struttura medica consisteva in un telo da tenda teso tra due alberi in mezzo al bosco e sopra una piccola, sotto il quale avevo un ferito da proiettile ritenuto in regione calcaneare. Ero aiutato da un così detto infermiere e disponevo soltanto di una cassetta da pronto soccorso e di un quaderno di appunti di semiotica medica, che andò perso quando fui catturato (e ancora me ne rammarico). In generale comunque tutto andava piuttosto bene, sia per ché i partigiani avevano una salute di ferro, sia perché avevano una naturale propensione a soffrire in nome degli ideali che li animavano. Potevo comunque curare le ferite con medicazioni, perché evidentemente non era il caso pensare ad operazioni; per i malanni di indole medica assisteva, ripeto, la gioventù, insieme all’aria buona di montagna; e ciò era senz’altro una fortuna poiché il mio solo bagaglio farmacologico erano una preparazione militare di oppi e bismuto, qualche fiala di canfora e il Micotra Tetra, unica mia conoscenza medicamentosa du quel tempo. Nondimeno era tale la novità di un medico in formazione che una volta fui addirittura chiamato a passare in rassegna (medica s’intende) il gruppo del Bigio, staccato in val Malga. Non solo, ma la popolazione stessa della Valsaviore, presso la quale non c’erano medici, cominciò a chiamarmi per visite domiciliari, al punto che ebbi più da fare con i civili che con i p0artigiani; e feci così per qualche mese il medico condotto senza laurea, senza titolo, senza permesso: come è vero che la solidarietà umana è la prima medicina!
Sotto questo profilo mi piace ricordare che nel corso delle mie visite avrei potuto essere catturato decine di volte, ma il silenzio e la copertura della popolazione furono sempre assoluti ed impenetrabili; come del resto ovvia e risaputissima è il periodo della Resistenza non sarebbe così bello e irripetibile se non fosse proprio per questa singolare ed unica nella nostra storia, fusione completa, anima e corpo, di quasi tutti gli italiani.
E, non nel corso di una visita medica, ma durante una missione informativa, venni catturato la sera del 28 settembre 1944 e non tornai più in formazione.
Fonti:
“La resistenza bresciana” n. 10, 1979, pp. 105-106
Mimmo Franzinelli, “La baraonda”, volume 2
a cura di Ennio Serventi
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