La storia di quel partigiano in bicicletta l’avevo già sentita. Qualcuno me la raccontò anni fa, tanti anni fa, tantissimi anni fa, quando ancora nei cortili e nelle passeggiate serali i racconti delle gesta partigiane erano argomento di partecipata conversazione fra gli adulti e di immedesimazione fantastica fra i ragazzi.
Colpevolmente non prestai molta attenzione al racconto, forse fu incompleto e, complice l’età, quel che mi rimase impresso di quell’azione fu l’uso della bicicletta nell’attacco ad una caserma fascista. Le storie partigiane che conoscevo erano storie di faticose marce per capezzagne di pianura e sentieri montani, di precari ricoveri in baite e fienili, di luoghi impervi e sconosciuti e mai vi compariva una bicicletta che da noi, più che strumento per il passeggio o per la guerra, era accessorio di lavoro.
Mi sfuggì completamente la percezione della pericolosità del gesto e della drammaticità dell’esito che, probabilmente, non conobbi. Poi il tempo passò, a quella storia si sovrapposero altre storie, le alterne vicende della vita e, di quel racconto si persero le tracce nel viluppo della memoria.
Pur profondamente ancorato agli eventi resistenziali ed ai suoi valori, mi iscrissi all’ANPI, frequentandone saltuariamente la sede, solo in anni recenti. Una sede austera, quella dell’ANPI di Cremona, incastonata nel cinquecentesco ex complesso ospedaliero di Santa Maria della Pietà sorto accorpando i beni delle passate opere caritatevoli-assistenziali della chiesa, fra l’antico vicolo degli Umiliati, la sconsacrata chiesa del “Foppone” ed il palazzo che fu dell’Ente Comunale di Assistenza, in stradine e piazzetta che furono luoghi d’incontro fra diverse sofferenze.
Una vecchia Cremona, che spontaneamente tenta con fatica di salvarsi dalle automobili fidando nella stretta larghezza e tortuosità degli antichi vicoli, su e giù per i quali è ancora possibile fare notte calpestando ciottoli cavati dal fiume e mattoni d’argilla resa rossa dalla cottura a gran fuoco, messi “in costa” a delimitare lo spazio riservato ai pedoni, nel conservato quasi silenzio.
Due sale strette e lunghe dagli alti soffitti a vela, locali accessori, ai muri, di un antico colore che andrebbe rischiarato, affissi manifesti colorati ed i cimeli con medaglia di un partigiano che scelse di chiamarsi “Barabba” e morì nudo, scaraventato sulla strada di un paese appoggiato ad una collina piena di neve, trafitto al costato da undici ferite di baionetta e colpi di moschetto (Francesco Marzano, Cremona 3.7.1923 – Castellarquato – Piacenza, 7.1.1945. Partigiano della 62° brigata Garibaldi “Luigi Evangelista”). In una delle sale della sede, un armadio di radica e cristallo lascia vedere il suo contenuto di cimeli partigiani: medaglie e targhe di commemorazioni di eventi gloriosi e luttuosi, raccoglitori per fotografie, decorazioni al valore vero, riproduzioni miniaturizzate di cippi e monumenti dove il finto oro ed il finto argento davano alle cose una certa pesante e cimiteriale solennità. In evidente contrasto con le cose esposte, un modesto pacchetto dalle dimensioni di un medio volume, avvolto in una spessa carta da pacchi marroncina, legato con uno spago ed infilato in una busta di plastica trasparente. Vinsi l’esitazione e, un giorno che ero solo, aprii quel pacchetto. Una bandiera tricolore con le bande in verticale teneva avvolte fasce rosse. Sulle fasce, scritte a mano in colore oro, parole di cordoglio e di dolore di familiari, partigiani, istituzioni. Una tessera di colore rosso con impressi timbri di comandi e l’antico simbolo delle brigate Garibaldi, dal quale certamente venne tratto il logo elettorale, nel 1948, del “Fronte Democratico Popolare”. Una serie di quattro fotografie sicuramente milanesi ritraevano, una, il luogo di un’esecuzione onorato da un picchetto di partigiani armati; sulle altre lo svolgersi di un partecipato corteo funebre con folla e plotone armato di partigiani, in una via (forse via Venini) invasa dalle macerie dei bombardamenti aerei. Altre sei foto di qualche anno più tardi: una camera ardente, un cimitero piccolo di un paese pedemontano dove, fra le altre, si vede distintamente la grande bandiera tricolore dell’ANPI di Cremona.
Nel pacchetto con altre cose, anche un foglietto scritto a macchina, una lettera su carta intestata con la quale il sindaco di Lumezzane (BS) invita il signor Libero Brugnolotti, abitante a Cremona in via Moretti 1, a partecipare ad una cerimonia nella quale sarà “inaugurata la bandiera della locale sezione dell’ANPI intitolata a suo figlio Giancarlo”.
Due fogli di diversi giornali d’epoca raccontano, in anni diversi, l’ultimo tratto della storia del partigiano Giancarlo Brugnolotti. Forse per lui, che dopo lo scoppio della guerra si arruolò volontario nell’esercito, il travaglio spirituale che nel settembre del 1943 accomunò tanti suoi coetanei fu particolarmente travagliato, ma scelse la Resistenza. Ammalatosi mentre era in Africa nord-occidentale, da El Alamein venne rimpatriato e mandato a Torino, aggregato al reggimento Lancieri di Novara. Dopo gli avvenimenti del settembre 1943 prese la via della bresciana Val Trompia, montagne e luoghi da lui conosciuti. Verso la fine degli Anni Trenta, aveva seguito il padre a Lumezzane, paese della bassa valle, dove entrambi lavorarono alla rubinetteria Bonomi. Giancarlo, però, mantenne la residenza milanese. Nell’estate del 1944 costituitasi, per iniziativa di Leonardo Speziale “Carlo” e Giuseppe Gheda “Bruno”, la 122a brigata Garibaldi, vi si arruolò. Più tardi la brigata, che venne chiamata “Antonio Gramsci”, fu comandata da Giuseppe Verginella “Alberto” che proveniva dalla 54a Garibaldi operante in Val Saviore. Nell’autunno la 122a brigata subì dei duri contraccolpi, Giancarlo scese a Milano dove Giovanni Pesce “Visone” lo arruolò nella 3a brigata GAP Lombardia.
Così l’amico e compagno Bruno Ghittoni lo ricorda nel sesto anniversario del martirio sul quotidiano l’Unità di sabato 21 aprile 1951:
«Ricercato dai fascisti, era fuggito dalle montagne del bresciano e si era rifugiato a Milano. Una famiglia di compagni di viale Monza l’aveva ospitato. In quella casa sembrava un leone in gabbia. Ogni volta che andavo a trovarlo assumeva un aria decisa e preoccupata e mi diceva: “ma perché mi tenete ancora qui? Io sono venuto a Milano non per nascondermi ma per combattere i nazifascisti!”. Io gli rispondevo di stare tranquillo, il suo momento sarebbe venuto.
Infatti il suo momento venne. Fu il 21 aprile 1945, pochi giorni prima della liberazione. In una azione condotta contro la sede fascista di via Cadamosto, per una banale e fatale disgrazia, fu preso, legato su di una sedia con la faccia rivolta contro il muro della chiesa di Santa Francesca Romana e fucilato.
Il pomeriggio di quel giorno illuminato dal sole di primavera, mi trovavo in casa di un compagno. Hai sentito? – mi disse – questa mattina hanno fucilato in via Cadamosto un gappista. Dicono che si è comportato come un eroe. Prima di morire ha gridato fino all’ultimo: “Vigliacchi! Viva l’Italia! Viva il comunismo! Vigliacchi, vigliacchi!”. Benché legato sulla sedia urlava con il capo rivolto all’indietro per guardare in faccia i sui assassini ed ebbe la faccia crivellata di colpi. La gente alle finestre piangeva. Sembra che si chiamasse Bruno Bianchi.
Non feci caso al nome e confesso che la notizia l’accolsi come se fosse una cosa del tutto normale. Ormai mi ero quasi abituato a notizie del genere.
Venne la Liberazione. In uno di quei giorni felici e gloriosi passando davanti ad una casa di via Venini, vidi il portone chiuso a metà in segno di lutto. Sopra, una corona di fiori e la fotografia di Giancarlo Brugnolotti; sotto la fotografia una scritta: Bruno Bianchi, fucilato dai fascisti il 21 aprile 1945 in via Cadamosto. Ebbi un tuffo al cuore. Il nome di Giancarlo Brugnolotti ancora per molti è oscuro, però il sacrificio di questo eroico figlio del popolo non è dimenticato. Esso è scolpito nella fede e nel cuore dei compagni che lo conobbero; è chiuso nel dolore fiero e silenzioso di una madre; è vivo nella lapide di via Cadamosto che i preti di Santa Francesca Romana vollero oltraggiare facendola staccare di due dita da quel muro che, pur essendo di proprietà della chiesa, lo vide morire eroicamente.»
Le raffiche del mitra di Giancarlo Brugnolotti contro la caserma fascista, la precipitosa ritirata, il tradimento della catena della bicicletta, l’inutile tentativo del compagno e la disperata difesa. Catturato, seviziato nell’interrogatorio, per le ferite incapace di reggersi in piedi, viene legato ad una sedia e sui gradini di una chiesa, fucilato. Drammaticamente si chiude il cerchio interrotto di quel racconto di tanti anni fa ed emerge l’immensa, a quel tempo colpevolmente non percepita, tragicità dell’evento.
A Giancarlo Brugnolotti (Cremona, 6 agosto 1921 – Milano 21 aprile 1945) è stata concessa con DPR del 2 ottobre 1978 la Croce al Valore Militare alla Memoria.
La motivazione ricorda come “pur sottoposto a lunghi interrogatori e a crudeli sevizie, nulla lasciava trapelare che potesse nuocere alla causa della libertà ed ai suoi compagni di lotta”.
Non posso non pensare al padre del partigiano accomunandolo nel ricordo al figlio. Penso anche a Libero Brugnolotti cav. di Vittorio Veneto che, tornato a vivere nella sua città, in quella Cremona dove suo figlio era nato, ha voluto che se ne traslasse la salma facendo scrivere sulla tomba “Martire per la libertà”, portando a noi dell’ANPI i cimeli che racchiudono il suo dolore perché li conservassimo, non dimenticati, a futura memoria.
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Giancarlo Brugnolotti
di Ennio Serventi
La storia di quel partigiano in bicicletta l’avevo già sentita. Qualcuno me la raccontò anni fa, tanti anni fa, tantissimi anni fa, quando ancora nei cortili e nelle passeggiate serali i racconti delle gesta partigiane erano argomento di partecipata conversazione fra gli adulti e di immedesimazione fantastica fra i ragazzi.
Colpevolmente non prestai molta attenzione al racconto, forse fu incompleto e, complice l’età, quel che mi rimase impresso di quell’azione fu l’uso della bicicletta nell’attacco ad una caserma fascista. Le storie partigiane che conoscevo erano storie di faticose marce per capezzagne di pianura e sentieri montani, di precari ricoveri in baite e fienili, di luoghi impervi e sconosciuti e mai vi compariva una bicicletta che da noi, più che strumento per il passeggio o per la guerra, era accessorio di lavoro.
Mi sfuggì completamente la percezione della pericolosità del gesto e della drammaticità dell’esito che, probabilmente, non conobbi. Poi il tempo passò, a quella storia si sovrapposero altre storie, le alterne vicende della vita e, di quel racconto si persero le tracce nel viluppo della memoria.
Pur profondamente ancorato agli eventi resistenziali ed ai suoi valori, mi iscrissi all’ANPI, frequentandone saltuariamente la sede, solo in anni recenti. Una sede austera, quella dell’ANPI di Cremona, incastonata nel cinquecentesco ex complesso ospedaliero di Santa Maria della Pietà sorto accorpando i beni delle passate opere caritatevoli-assistenziali della chiesa, fra l’antico vicolo degli Umiliati, la sconsacrata chiesa del “Foppone” ed il palazzo che fu dell’Ente Comunale di Assistenza, in stradine e piazzetta che furono luoghi d’incontro fra diverse sofferenze.
Una vecchia Cremona, che spontaneamente tenta con fatica di salvarsi dalle automobili fidando nella stretta larghezza e tortuosità degli antichi vicoli, su e giù per i quali è ancora possibile fare notte calpestando ciottoli cavati dal fiume e mattoni d’argilla resa rossa dalla cottura a gran fuoco, messi “in costa” a delimitare lo spazio riservato ai pedoni, nel conservato quasi silenzio.
Due sale strette e lunghe dagli alti soffitti a vela, locali accessori, ai muri, di un antico colore che andrebbe rischiarato, affissi manifesti colorati ed i cimeli con medaglia di un partigiano che scelse di chiamarsi “Barabba” e morì nudo, scaraventato sulla strada di un paese appoggiato ad una collina piena di neve, trafitto al costato da undici ferite di baionetta e colpi di moschetto (Francesco Marzano, Cremona 3.7.1923 – Castellarquato – Piacenza, 7.1.1945. Partigiano della 62° brigata Garibaldi “Luigi Evangelista”). In una delle sale della sede, un armadio di radica e cristallo lascia vedere il suo contenuto di cimeli partigiani: medaglie e targhe di commemorazioni di eventi gloriosi e luttuosi, raccoglitori per fotografie, decorazioni al valore vero, riproduzioni miniaturizzate di cippi e monumenti dove il finto oro ed il finto argento davano alle cose una certa pesante e cimiteriale solennità. In evidente contrasto con le cose esposte, un modesto pacchetto dalle dimensioni di un medio volume, avvolto in una spessa carta da pacchi marroncina, legato con uno spago ed infilato in una busta di plastica trasparente. Vinsi l’esitazione e, un giorno che ero solo, aprii quel pacchetto. Una bandiera tricolore con le bande in verticale teneva avvolte fasce rosse. Sulle fasce, scritte a mano in colore oro, parole di cordoglio e di dolore di familiari, partigiani, istituzioni. Una tessera di colore rosso con impressi timbri di comandi e l’antico simbolo delle brigate Garibaldi, dal quale certamente venne tratto il logo elettorale, nel 1948, del “Fronte Democratico Popolare”. Una serie di quattro fotografie sicuramente milanesi ritraevano, una, il luogo di un’esecuzione onorato da un picchetto di partigiani armati; sulle altre lo svolgersi di un partecipato corteo funebre con folla e plotone armato di partigiani, in una via (forse via Venini) invasa dalle macerie dei bombardamenti aerei. Altre sei foto di qualche anno più tardi: una camera ardente, un cimitero piccolo di un paese pedemontano dove, fra le altre, si vede distintamente la grande bandiera tricolore dell’ANPI di Cremona.
Nel pacchetto con altre cose, anche un foglietto scritto a macchina, una lettera su carta intestata con la quale il sindaco di Lumezzane (BS) invita il signor Libero Brugnolotti, abitante a Cremona in via Moretti 1, a partecipare ad una cerimonia nella quale sarà “inaugurata la bandiera della locale sezione dell’ANPI intitolata a suo figlio Giancarlo”.
Due fogli di diversi giornali d’epoca raccontano, in anni diversi, l’ultimo tratto della storia del partigiano Giancarlo Brugnolotti. Forse per lui, che dopo lo scoppio della guerra si arruolò volontario nell’esercito, il travaglio spirituale che nel settembre del 1943 accomunò tanti suoi coetanei fu particolarmente travagliato, ma scelse la Resistenza. Ammalatosi mentre era in Africa nord-occidentale, da El Alamein venne rimpatriato e mandato a Torino, aggregato al reggimento Lancieri di Novara. Dopo gli avvenimenti del settembre 1943 prese la via della bresciana Val Trompia, montagne e luoghi da lui conosciuti. Verso la fine degli Anni Trenta, aveva seguito il padre a Lumezzane, paese della bassa valle, dove entrambi lavorarono alla rubinetteria Bonomi. Giancarlo, però, mantenne la residenza milanese. Nell’estate del 1944 costituitasi, per iniziativa di Leonardo Speziale “Carlo” e Giuseppe Gheda “Bruno”, la 122a brigata Garibaldi, vi si arruolò. Più tardi la brigata, che venne chiamata “Antonio Gramsci”, fu comandata da Giuseppe Verginella “Alberto” che proveniva dalla 54a Garibaldi operante in Val Saviore. Nell’autunno la 122a brigata subì dei duri contraccolpi, Giancarlo scese a Milano dove Giovanni Pesce “Visone” lo arruolò nella 3a brigata GAP Lombardia.
Così l’amico e compagno Bruno Ghittoni lo ricorda nel sesto anniversario del martirio sul quotidiano l’Unità di sabato 21 aprile 1951:
«Ricercato dai fascisti, era fuggito dalle montagne del bresciano e si era rifugiato a Milano. Una famiglia di compagni di viale Monza l’aveva ospitato. In quella casa sembrava un leone in gabbia. Ogni volta che andavo a trovarlo assumeva un aria decisa e preoccupata e mi diceva: “ma perché mi tenete ancora qui? Io sono venuto a Milano non per nascondermi ma per combattere i nazifascisti!”. Io gli rispondevo di stare tranquillo, il suo momento sarebbe venuto.
Infatti il suo momento venne. Fu il 21 aprile 1945, pochi giorni prima della liberazione. In una azione condotta contro la sede fascista di via Cadamosto, per una banale e fatale disgrazia, fu preso, legato su di una sedia con la faccia rivolta contro il muro della chiesa di Santa Francesca Romana e fucilato.
Il pomeriggio di quel giorno illuminato dal sole di primavera, mi trovavo in casa di un compagno. Hai sentito? – mi disse – questa mattina hanno fucilato in via Cadamosto un gappista. Dicono che si è comportato come un eroe. Prima di morire ha gridato fino all’ultimo: “Vigliacchi! Viva l’Italia! Viva il comunismo! Vigliacchi, vigliacchi!”. Benché legato sulla sedia urlava con il capo rivolto all’indietro per guardare in faccia i sui assassini ed ebbe la faccia crivellata di colpi. La gente alle finestre piangeva. Sembra che si chiamasse Bruno Bianchi.
Non feci caso al nome e confesso che la notizia l’accolsi come se fosse una cosa del tutto normale. Ormai mi ero quasi abituato a notizie del genere.
Venne la Liberazione. In uno di quei giorni felici e gloriosi passando davanti ad una casa di via Venini, vidi il portone chiuso a metà in segno di lutto. Sopra, una corona di fiori e la fotografia di Giancarlo Brugnolotti; sotto la fotografia una scritta: Bruno Bianchi, fucilato dai fascisti il 21 aprile 1945 in via Cadamosto. Ebbi un tuffo al cuore. Il nome di Giancarlo Brugnolotti ancora per molti è oscuro, però il sacrificio di questo eroico figlio del popolo non è dimenticato. Esso è scolpito nella fede e nel cuore dei compagni che lo conobbero; è chiuso nel dolore fiero e silenzioso di una madre; è vivo nella lapide di via Cadamosto che i preti di Santa Francesca Romana vollero oltraggiare facendola staccare di due dita da quel muro che, pur essendo di proprietà della chiesa, lo vide morire eroicamente.»
Le raffiche del mitra di Giancarlo Brugnolotti contro la caserma fascista, la precipitosa ritirata, il tradimento della catena della bicicletta, l’inutile tentativo del compagno e la disperata difesa. Catturato, seviziato nell’interrogatorio, per le ferite incapace di reggersi in piedi, viene legato ad una sedia e sui gradini di una chiesa, fucilato. Drammaticamente si chiude il cerchio interrotto di quel racconto di tanti anni fa ed emerge l’immensa, a quel tempo colpevolmente non percepita, tragicità dell’evento.
A Giancarlo Brugnolotti (Cremona, 6 agosto 1921 – Milano 21 aprile 1945) è stata concessa con DPR del 2 ottobre 1978 la Croce al Valore Militare alla Memoria.
La motivazione ricorda come “pur sottoposto a lunghi interrogatori e a crudeli sevizie, nulla lasciava trapelare che potesse nuocere alla causa della libertà ed ai suoi compagni di lotta”.
Non posso non pensare al padre del partigiano accomunandolo nel ricordo al figlio. Penso anche a Libero Brugnolotti cav. di Vittorio Veneto che, tornato a vivere nella sua città, in quella Cremona dove suo figlio era nato, ha voluto che se ne traslasse la salma facendo scrivere sulla tomba “Martire per la libertà”, portando a noi dell’ANPI i cimeli che racchiudono il suo dolore perché li conservassimo, non dimenticati, a futura memoria.
Vedi il testo di Ennio Serventi sul sito anpi.it
Su Giancarlo Brugnolotti:
> wikipedia
> Pietre per la memoria
Giovanni Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, 1973
Franco Giannantoni – Ibio Paolucci, La bicicletta nella Resistenza. Storie partigiane, Arterigere, 2008
Le fotografie dei funerali donate dalla famiglia sono a questa pagina.